Fuori i nomi

6 ottobre 2021

Le Zebre sono a Parma dal 2012. Da almeno sette anni si dice, in loop, che devono connettersi maggiormente col territorio, sotto vari punti di vista: economico, quindi sponsor, del pubblico, maggior presenza, con le altre squadre. L’ultimo che ci sta provando è il nuovo presidente, Michele Dalai, in carica dall’aprile scorso, che con Parma ha sempre avuto una connessione e che da quattro anni abita nei pressi di Torrechiara. Vedremo. Un punto di contatto con la città e col suo territorio è dato dallo stadio, intitolato a Sergio Lanfranchi, il giocatore parmigiano con maggiore gloria nella storia ovale: azzurro, ex Rugby Parma con cui ha vinto uno scudetto e poi ha fatto le fortune del Grenoble. Ecco, indipendentemente da quanti e quali sponsor locali si affiancheranno e se lo stadio arriverà mai a una media/stagione di 2200 spettatori/partita (potrebbe servire vincere qualche partita in più …), proprio lo stadio potrebbe diventare veicolo di ulteriore connessione con il territorio. Intitolando almeno le tre tribune coperte (dato che non si può fare con gli “stand”, tipici di alcuni stadi inglesi e francesi) a personaggi che sono rimasti nella memoria di tutti gli addetti ai lavori non necessariamente per essere stati grandi e vincenti giocatori. Penso, per esempio, a Renato Giuffredi, il “masseur” dal cuore grande della Rugby Parma tra fine anni ‘70, gli ’80 e inizio ’90, o a Paolo Quintavalla, uno che unisce tutte le squadre di Parma e provincia. Giusto per fare due nomi. Sempre meglio che tribuna ovest, est eccetera. Poi, considerando che Leonardo Mussini, scomparso prematuramente nei giorni scorsi, oltre che essere stato il media manager e tanto altro delle Zebre negli ultimi anni curava anche la comunicazione del Comitato rugby Emilia-Romagna, si potrebbe intitolare a lui la sala conferenze dello stadio Lanfranchi, usata sia dal Comitato che, in qualche caso, dalle Zebre, i cui uffici sono limitrofi.


La Pista Potemkin

20 luglio 2021

Un paio di giorni prima del cammin verso il Trentino, mi ritrovai con una pista oscura che la diritta via lasciava smarriti. Perché, sinceramente, mi sfugge l’utilità della pista ciclabile in Via Pasini se, parallelamente, c’è il viale del Parco Ducale, più sicuro e senza l’aerosol delle auto. Qualche ciclista che la prende c’è, eh; io (come tanti altri) non la percorrerò mai e continuerò a usare il Parco Ducale. Poi sai che libidine la via con una sola corsia per le auto quando tutte le attività saranno aperte e riapriranno le scuole? Al Comune di Parma ci pensano prima di farle le robe o vanno così, tac, di getto? Di piste ciclabili di cacca ne hanno partorite parecchie, il duo Ubaldi-Vignali, e speravo fosse finita lì. Anche questa mi sembra una roba tipo la Corazzata Potemkin di fantozziana memoria. Il concetto non è sbagliato, ma soltanto quello, nel senso che la pista ciclabile andrebbe nella sede stradale, magari protetta come è in Viale Piacenza “vecchio”. Sarebbe il caso, quindi, di provvedere a metterne in strada alcune proprio per porre rimedio alle “corazzate” di cui sopra, tipo quella sul lungoparma da ponte Verde fino a ponte Dattaro che è una roba improponibile. Perché non è che le piste ciclabili devono essere messe quasi esclusivamente sui marciapiedi (grazie al “nostro” Lunardi, quello che “con la mafia bisogna convivere”, nel codice della strada sono diventate piste ciclopedonali, che così un sacco di gente va in bici sul marciapiede anche se non c’è il disegnino del ciclo), anzi: vedere Olanda e Danimarca che ne sanno più di noi. Poi qualcuno dirà che noi abbiamo un traffico auto che non ha paragoni con quei Paesi là. Certo, però mettiamo restrizioni serie al traffico in città entro le “porte” e andrà meglio, altrimenti non ha senso fare delle ciclabili, conviene usare auto o bus altrimenti muori prima del tempo a causa dell’inquinamento, che già …. E un’altra cosa dovreste fare, cari amministratori/tecnici, per correggere le “corazzate” precedenti: nelle piste ciclopedonali disegnate sui marciapiedi (vedi Via Savani, Via Emilia Est, Via Emilio Lepido, via Emilia Ovest eccetera) gli attraversamenti delle strade laterali devono essere A RASO, non con le PECCHE, dio bono! Ce l’avete lo scroto? Avete mai usato la bici su quelle ciclopedonali? Si spendono tanti soldi in puttanate, sarebbe il caso di spenderli per qualcosa di sensato.


Ripudiati

18 Maggio 2021

La Fir ha in gestione la Cittadella del Rugby di Parma (sino al 2032) per il tramite dell’ex presidente, ora onorario, Giancarlo Dondi, ed è socia unica delle Zebre che partecipano al Pro14, campionato celtico-italiano da settembre celtico-italiano-sudafricano (se tutto andrà come si spera con la pandemia). I Panthers Parma sono la squadra di football americano che partecipa al campionato italiano di Prima Divisione che ha vinto quattro volte consecutivamente dal 2010 al 2013 e saliti alla ribalta anche per il libro di John Grisham “Playing for Pizza”. Da che esistono, i Panthers sono sempre stati ospitati nello stadio del rugby, il Lanfranchi, sito in Viale Piacenza sino al 2008, gestito dalla società di rugby; stadio nel quale, per alcuni anni, hanno giocato ben due squadre del massimo campionato italiano (il GrAN oltre alla Rugby Parma). Le Zebre della Fir giocano nel nuovo Lanfranchi di Moletolo, operativo dal 2009, dal 2012, anno in cui Dondi, all’ultimo anno di presidenza Fir, le sistemò a Parma. Nel 2015 e nel 2016, però, i Panthers hanno dovuto emigrare al Tardini (dopo triangolazioni Parma Calcio-Erreà-Comune di Parma) poiché non più graditi al Lanfranchi; stadio sovradimensionato, il Tardini, ma almeno … Nel 2017 hanno dovuto giocare l’80% delle partite casalinghe di regular season in uno stadio diverso ogni volta e sempre fuori dal territorio comunale; per la semifinale il Parma Calcio ha concesso il Tardini. Poi sono riusciti a ritrovare la quadra con Dondi e sono tornati. L’anno scorso il campionato non si è disputato causa pandemia. Quest’anno ci risiamo: Lanfranchi off limits. E sì che il terreno nuovo è a prova di “distruzione”. Il football americano non ha mai rovinato terreni, anche perché non si disputano le mischie. E pensare che quelli del rugby se la prendono con quelli del calcio, se non gli danno lo stadio, perché dicono che gli rovinano il campo. Oltretutto il terreno rifatto non lo rovinano manco le Zebre quando piove, sicché. Però c’è la manutenzione … Costringere una squadra che è sempre stata in simbiosi con quella di rugby a giocare partite di campionato su un campo d’allenamento (“hanno il loro campo, che giochino lì …”) o a Collecchio o a Noceto non è onorevole, né per la Fir né per il Comune di Parma che avrebbe le famigerate 5 finestre da poter utilizzare per l’uso del Lanfranchi. Credo che una soluzione, vera, vada trovata se Parma vuole dirsi veramente una città sportiva (o il rugby sport d’inclusione).

(foto Luana Nigri)


Che ne sai, tu, di un campo (esterno) di baseball

12 Maggio 2021

L’ultimo libro di Murakami Haruki s’intitola “Prima persona singolare”. Quando sono giunto al capitolo “Antologia poetica per gli Yakult Swallows” mi è sorto spontaneo un «Noooo» di meraviglia. So già che qualche spiritosone avrà detto «Cos’è, un tipo di yogurt?». Gli Yakult Swallows sono una squadra di baseball della Nippon Professional Baseball, in sostanza la Major League giapponese, di stanza a Tokyo. E sì, sono di proprietà dei “re” degli yogurt (che essendo giapponesi bisognerebbe dire gli “imperatori” degli yogurt). Hanno vinto 5 volte il titolo, il primo nel 1971, l’ultimo nel 2001. Un loro esterno (uno dei ruoli del baseball, in campo ce ne sono tre: esterno destro, esterno centro, esterno sinistro), Norichika Aoki, nel 2012 andò a giocare in Major League con i Milwuakee Brewers, girò un po’ di squadre, anche i miei Toronto Blue Jays, prima di tornare agli Swallows nel 2018. Ha giocato anche alle Olimpiadi (2008). Perché l’ho citato? Lo capirete poi. Dicevo dell’espressione meravigliata. Perché il primo amore (sportivo) non si scorda mai, poi avendolo praticato per anni il baseball, a livello bassissimo, ma tant’è, e continuando a seguirlo, non si può non provare una certa soddisfazione quando lo si vede citato, ad esempio, all’interno di un libro. Lo sport è anche poesia e il baseball non fa eccezione, anzi. Non è un caso il titolo del capitolo. Nelle prima righe scrive Murakami Haruki:”Andavo a vederli al Meiji Jingu fin da quando si chiamavano Sankei Atoms. C’è anche da dire che abitavo molto vicino allo stadio. D’altronde è così anche adesso. Perché ogni volta che ho cercato un appartamento a Tokyo, la condizione essenziale era che da lì si potesse andare a piedi al Miji Jingu”. Anch’io abitavo a 5 minuti a piedi dallo stadio Europeo poi Nino Cavalli (e del Lanfranchi di rugby che era suo fratello siamese) e le luci dei riflettori nelle partite notturne illuminavano uno spicchio di un palazzo vicino. Quando, nel 2009, venne abbattuto per far posto alla sede dell’Efsa e spostato là dove a piedi ci vuole almeno mezz’ora non vi dico i sentimenti che ho provato (anche nei confronti di chi l’ha abbattuto …). Ma torniamo alla poesia e all’esterno. Il buon Murakami Haruki cita una poesia (al termine della quale si chiede se si può definire realmente una poesia) dal titolo “Esterno destro” (non per Aoki, che quando la squadra si chiamava Sankei Atoms non era ancora nato) che fa:

Questo pomeriggio di maggio, tu

sei un esterno destro al Jingu.

Esterno dei Sankei Atoms.

E’ il tuo ruolo.

Nel mio posto in campo esterno destro

sto bevendo una birra tiepida.

Come sempre.

Il battitore della squadra avversaria

batte un fly verso l’esterno destro.

Un pop fly semplice.

Vola alto, ma non è veloce.

Non c’è vento.

Il sole non abbaglia.

Una vittoria facile.

Sollevi un poco entrambe le mani e avanzi tre metri.

Ok.

Bevo un sorso di birra,

attendo che la palla cada.

La palla

quasi avesse calcolato la traiettoria con la squadra

cade esattamente tre metri alle tue spalle.

Con un suono secco

come un maglio leggero contro una angolo del cosmo.

Allora penso.

Perché sono diventato tifoso di una squadra così?

Un enigma di dimensioni cosmiche.”

Ecco, leggendo questa “poesia” mi sono venute in mente alcune mie prestazioni, ma anche una in particolare di un giocatore del Parma baseball, che, però, non era un esterno di ruolo, va detto, che ci fece perdere una partita (poi, anche lo scudetto, anche se magari lo avremmo perso ugualmente senza quell’errore di valutazione spiccicato alla poesia).

(foto personale di Marco Vasini, ex esterno)


Essi furono.

5 Maggio 2021

5 maggio 1821 – 5 maggio 1981. Napoleone Bonaparte – Bobby Sands. 51 anni – 27 anni. Entrambi nati in un’isola con la voglia di libertà. Con la differenza che il primo della libertà ne è diventato l’ottenebratore, l’altro ne è stato in balia. Entrambi, ciascuno a modo suo, hanno dichiarato guerra a qualcuno. Entrambi hanno subito una condanna senza un processo. Entrambi sono morti “in prigione”, con un carceriere comune: gli inglesi. In questi due giorni le trasmissioni di alto profilo storico-culturale della Rai, su Rai 3 e su Rai Storia, hanno dedicato ben tre trasmissioni a Napoleone Bonaparte. Nessuna a Bobby Sands. Grandeur oblige, ça va sans dire. Napoleone ha fatto la storia, lo abbiamo studiato a scuola. A Parma ne siamo stati sfiorati, avendo avuto la sua seconda moglie, Maria Luisa d’Austria, come Duchessa. Bobby era uno dell’IRA, un terrorista, anche parlamentare, prosciolto dalle accuse di aver partecipato a fatti di sangue, al contrario dell’altro, e condannato “soltanto” per detenzione illegale di arma da fuoco, due volte: 5 anni la prima senza subire un processo, 14 anni la seconda (scontati in minima parte, con la massima “pena”). Una di queste trasmissioni, Passato e Presente, ha soltanto lambito la sua figura parlando, ieri, 4 maggio, dell’IRA. Nessuno vuole mettere Sands sul piano di Napoleone, ci mancherebbe, ma la storia ha diverse facce. “L’immortalità è il ricordo che si lascia nella memoria degli uomini. Quest’idea spinge a grandi imprese. Meglio sarebbe non aver vissuto che non lasciare tracce della propria esistenza” è una frase di Napoleone, che si addice anche a Bobby Sands.


Tu chiamalo, se vuoi, cambiamento

29 aprile 2021

La questione Zebre è un dedalo abbastanza intricato. O forse è semplice, nella sua complessità. Forse andrebbero risolte le due dicotomie che si trascinano da anni, una di queste dalla nascita (stagione 2012/13). Partiamo da quest’ultima. Le Zebre sono una franchigia federale, di sviluppo (di giocatori in ottica Nazionale) è sempre stato detto. Messaggio intrinseco: i risultati sportivi sono secondari. Pier Luigi Bernabò, secondo presidente delle Zebre, uomo federale, rimasto in carica due anni, quando presentò Andrea Cavinato come nuovo head coach disse che sì, è una franchigia di sviluppo, ma un club deve anche vincere. Elementare. E vincere aiuta a riempire maggiormente lo stadio, in Italia soprattutto va così. Ma come puoi pensare di vincere di più in modo da navigare almeno nella parte media, magari con qualche eccezionale apparizione in quella medio-alta, della classifica soltanto “sviluppando” i giocatori italiani (basta vedere come siamo andati nel 6 Nazioni negli ultimi 6 anni)? Che per due mesi, oltretutto, un terzo di questi non li hai a disposizione. Servirebbero tre giocatori stranieri di maggior qualità in ruoli chiave rispetto alla stragrande maggioranza di coloro che si sono avvicendati in questi nove anni (e sono stati una vagonata), come “isolani” meteore dal curriculum di due righe, vecchie glorie ormai in pantofole et similia. Molti di loro sono rimasti una sola stagione. Coloro che hanno lasciato un segno si contano sulle dita di una mano: van Schalkwyk, Leonard, Meyer (che lo sta ancora lasciando) e … Altro che mano … Stranieri di qualità, a volte va anche a fortuna, e nei ruoli giusti, perché non si capisce il senso di due seconde linee straniere, seppur di qualità, quando servirebbe un numero 8 degno di tal nome, che manca da quando van Schalkwyk ha lasciato, quindi da un lustro. Uno alla Nick Williams, per intenderci, ammirato per due stagioni con gli Aironi, dove era un predicatore nel deserto, praticamente. Certo, devi avere un budget ben superiore a quello di tutti questi anni, senza chiedere riduzioni di stipendi.

Seconda dicotomia. Le Zebre devono radicarsi a Parma. Però si fanno chiamare il XV del nord-ovest. Devono radicarsi a Parma, ma abbracciano interessi più ampi. Eh, allora non lamentatevi se non trovate sponsor adeguati nel territorio. Cercateli negli “interessi più ampi”. A me farebbe un enorme piacere se le Zebre fossero sponsorizzate Barilla o Casappa o Bonatti o Chiesi o Dallara (per citare aziende di una solidità globale di elevato spessore) in modo da poter coadiuvare una progettualità col movimento ovale locale, ma se non ci sentono (loro come altre aziende non così multinazionali) cercateli nel resto del nord-ovest e non menatela troppo con Parma. (Col calcio è diverso: anche se uno è americano, o arabo o cinese, basta che abbia soldi a iosa per far vivere il Parma in serie A – o riportarglielo…). Ma servirebbero 1 o 2 milioni di euro a stagione. Radicamento vuol dire identità. Le Zebre se la dovevano, e devono ancora dopo nove stagioni, costruire. Avere una delle aziende di cui sopra aiuterebbe. Ma servirebbe anche una franchigia territoriale giovanile in modo da creare un minimo di simbiosi col movimento, sempre piuttosto freddino e geloso del proprio orto. Hanno provato con la “privatizzazione” (del capitale sociale, pur rimanendo una franchigia in cui la Fir metteva quasi 10 volte tanto coi suoi 4 milioni), ma sappiamo com’è andata a finire perché non erano persone del territorio con solidità e credibilità elevatissime. Dopodiché la Fir ha messo un manager come Andrea Dalledonne a risollevare la baracca. Ha fatto decisamente il suo, anche se ci si sarebbe aspettati qualcosa di più. Non era un manager del territorio, ma quanto meno emiliano. Se vuoi provare a innestare questo radicamento può essere utile, per il dopo Dalledonne, avvalersi di un manager (non necessariamente dell’ambiente del rugby, perché le sue competenze devono essere altre per gestire, di fatto, un’azienda) locale. Al posto dell’uomo solo al comando la Fir mette un triumvirato (ma costa quanto un solo?) composto da chi? Carlo Checchinato amministratore delegato. Un veneto, nato nel rodigino ma con gli ultimi 10 anni di carriera da giocatore trascorsi a Treviso … Va beh, se però a Parma non ne trovi con una certa competenza lo prendi da fuori … Franco Tonni componente del cda. Una vita al Viadana (che ha portato in alto, gli va dato atto) ed ex Aironi ovvero coloro che ce l’hanno a morte con le Zebre e coi parmensi perché, secondo loro, responsabili insieme a Dondi di aver fatto morire i volatili del Pro14. Va beh, però è anche vero che chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato, scordiamoci il passato … Michele Dalai presidente. Il nuovo, lui sì. E’ di Milano, ma se non altro risiede in provincia di Parma dal 2017 e ha avuto una liaison (non amorosa, magari pure quella …) anche in gioventù.

Ecco, io spero si riescano a sciogliere queste due dicotomie e che in vista del decimo anno le Zebre possano iniziare un nuovo, più solido e più performante percorso. A Parma. Con più Parma dentro meglio, ma io non sono schizzinoso.

(foto Zebre RC)


Supertelecalcione

20 aprile 2021

La Superlega di calcio, e prima di lei l’Eurolega di basket, si rifanno, sostanzialmente, al motto del Marchese del Grillo:«Io so’ io. E voi non siete ‘n cazzo». C’è chi, per avallarne la nascita, cita la Nba o la Nfl. Peccato che siano su due piani diversi. Nba, Nfl, Nhl e ci metto pure la Mlb, sono dei campionati; la Superlega no. Il baseball Usa si differenzia dal basket, dal football e dall’hockey su ghiaccio perché è come se fosse come il calcio nazionale in Europa ovvero con le serie minori, con la differenza che ogni serie, denominata lega, è chiusa: non si sale e non si scende, eccetto i giocatori, poiché ogni lega è costituita dalle “seconde”, “terze”, “esordienti” squadre delle organizzazioni di Mlb. Detto molto terra terra per capirci. La Superlega è un’altra cosa. Ci facciamo un torneo europeo tutto per noi 15 squadre, anche se attualmente sono 12, voi continuate pure a farvi la Champions e l’Europa League. I Superleghisti, però, sono accoglienti. Hanno previsto dei corridoi umanitari. Invitano cinque squadre “extracomunitarie” a partecipare, per arrivare a 20, secondo i loro criteri. Non che l’attuale Champions League non abbia le sue storture formali. Perché la chiami “Champions” se vi partecipano anche le squadre che arrivano terze e quarte nei loro campionati e magari non hanno mai vinto un tubo in vita loro? Certo, poi puoi ammirare i prodigi di una squadra come l’Atalanta, ma allora non la chiami più Champions. Dettagli. Ma è tutto normale: da anni annorum, ormai, nello sport, come in altri settori, a comandare è la pecunia. Non che non abbia mai avuto il suo peso, ma ora è soverchiante. Questi mega-club gestirebbero in prima persona diritti tv e quant’altro. Ben diverso dalla “gestione condivisa” attuale. E la meritocrazia cancellata definitivamente dal vocabolario. Sono idealista? Quasi utopista? Forse. Però a me piace vedere una Coppa dei Campioni nella quale si affrontano gli annuali campioni d’Italia, di Francia, di Bulgaria, di Spagna eccetera. Se il Liverpool, squadra che adoro sin da quando ero ragazzo, arriva sesto in campionato e per questo si merita l’attuale Europa League, che vada a giocare con l’Omonia Nicosia, il Levski Sofia, il Villareal, il Lens, il Qarabag e compagnia bella. Che i fantastici dodici/quindici si facciano un campionato per conto loro, ergo rinunciando ai loro campionati nazionali … In questo caso, però, è pressoché certo che questi ultimi delle nazioni più toccate (Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Germania) verrebbero “ammazzati” (economicamente e dal punto di vista mediatico) e se quei club, invece, continuassero a militare nei rispettivi campionati nazionali li monopolizzerebbero, forse anche in misura maggiore rispetto a ciò che stanno facendo attualmente. E se le Coppe Europee evolvessero sullo stile della Nations League? Oppure si ristrutturi tutto in stile Mlb, con le varie leghe minori. Hanno le risorse, le fantastiche 12 o 15, per farlo in modo da sorreggere anche altre realtà? Domanda retorica.


Prendiamo la spinta o scaviamo?

21 marzo 2021

Quando si tocca il fondo ci sono due opzioni, no? Prendere la spinta per risalire o scavare. Speriamo che l’Italrugby non prenda la pala. Quello appena concluso è stato il peggior 6 Nazioni dei 22 disputati: peggior differenza punti (-184), peggior differenza mete (-28). E siamo a 32 sconfitte consecutive, praticamente 6 anni. Il numero di mete fatte (6) non è il dato peggiore in assoluto, si è fatto di peggio, incredibilmente, ma quello delle mete subite sì: ben 34 (il dato peggiore precedente è stato 29 nel 2016). Imbarazzante e inconcepibile, per una squadra che partecipa al 6 Nazioni, il numero di placcaggi sbagliati contro la Scozia: 49, su 268 portati, che è oltre il 18%. Subito dopo la partita di ieri mi sono tornate in mente le parole dell’allora presidente federale, Giancarlo Dondi, che nel 2008, da me intervistato a margine di una riunione straordinaria della Lega rugby, di fatto morta, disse, a domanda se non ci fosse dietro un disegno in chiave celtica (allora Magners League, ora Pro14) visto che Treviso e Calvisano erano già uscite prima della Capitolina:”Ma quello è un campionato fritto, ci sono pochi soldi, i migliori giocatori gallesi e scozzesi vanno a giocare altrove … ”. Ci siamo andati due anni dopo … Per crescere, richiamando i nostri (“vecchi”) dall’estero; e perché il nostro è un Paese con 60 milioni di abitanti che farà gola, si diceva, al mercato di quelli là. Infatti, le nostre squadre sono cresciute e hanno fatto benissimo in Keltik Lig con benefici evidenti anche sulla nazionale … Poi di sponsor, pieno così, eh! Della serie si stava meglio quando si stava peggio: l’Italia del Flaminio, chiamiamola così, (2000-2011) nella quale l’Accademia ancora non aveva riempito di asterischi la lista gara, ha fatto 8 vittorie e 1 pari in 60 partite, l’Italia dell’Olimpico 4 vittorie in 50, l’ultima nel 2015. Riusciremo ad andare almeno in pari nei prossimi due tornei? Mah … E’ una squadra giovane, appena ricostruita, l’Italia. Va bene, però facciamo un paragone con i giovani delle altre squadre. E’ lì, il busillis ben noto da tempo. Riusciranno a limare un po’ le distanze entro breve? Intanto smaltiamo l’angoscia, ne riparleremo tra una undicina di mesi.


Innocenti elezioni

14 marzo 2021

Signori, si cambia. Quanto e come? Chi vivrà, vedrà. Che Alfredo Gavazzi non ce l’avrebbe fatta a rimanere presidente della Fir era fuori di dubbio, ma che prendesse soltanto il 3% … Devo ammettere che mi ha fatto un po’ di compassione vederlo in quelle condizioni. Forse avrebbe dovuto cedere il passo e non candidarsi. Ha spiegato il perché nel discorso riassuntivo dell’ultimo quadriennio, l’ultimo da presidente federale. Sì, d’accordo la metafora dello spirito del rugby, il cadere, il rialzarsi, il cercare di avanzare comunque, la voglia di vincere, però arriva anche un punto della carriera in cui occorre dire basta, senza per questo essere tacciati di mancanza di spina dorsale. Insensato, poi, il discorso, fatto da candidato, secondo il quale chi si candidava non aveva esperienza dirigenziale federale o di club «perché un conto è dirigere un’azienda, un altro dirigere una federazione: io ho un’azienda ma è diverso. Ho la consapevolezza che nessuno di loro conosce la macchina federale, non c’è conoscenza del mondo internazionale; le risorse arrivano da lì». Secondo il suo ragionamento, quindi, avrebbe dovuto rimanere in carica anche post mortem … O si può candidare soltanto chi è già dentro la casa federale da anni. Magari avrebbe dovuto candidarsi il prof. Ascione … E poi la terza franchigia, a Roma. Ancora ‘sta storia. Ma se ci facciamo ridere dietro con due in Pro14!? Il problema non è averne una terza, ma giocatori italiani di qualità per poter fare risultati decorosi con le due esistenti. Tra i vari risultati di cui si è detto orgoglioso ha citato l’Under 20 azzurra che negli ultimi tre mondiali ha chiuso due volte ottava e una volta, l’ultima, nona. Rimarcando, di conseguenza, l’importanza di Centri di formazione e Accademie. Caro ex presidente, ma se da sei anni non vinciamo una partita nel 6 Nazioni con tutti quegli asterischi!

Ora è arrivato il cambiamento. Marzio Innocenti. Tralasciando la sua (un po’) patetica e teatrale metafora elogiativa del gesto di Giovanni Poggiali che ha lasciato la corsa a 24 ore dall’elezione per affrancarsi a lui, Innocenti ha, a mio avviso, iniziato col piede sbagliato, almeno comunicativamente parlando. Appena eletto dall’Assemblea ha detto:«Ci manderanno via dal 6 Nazioni? Boh … Ma non cambia la questione: bisogna costruire e non si comincia dal tetto». Certo, ma qui dobbiamo cercare di riqualificarla la casa, non buttarla giù e farne una nuova. Fossi stato in lui mi sarei astenuto da quella uscita un po’ da bar. Perché va bene dire pane al pane e vino al vino, ma il ruolo istituzionale merita anche un minimo di discrezione (cosa di cui Gavazzi, di tanto in tanto, si era dimenticato). Poi ha aggiunto che l’alto livello è importante, ma la base lo è di più. Si è contraddetto? Mah. Certo, nell’alto livello c’è anche il Pro14/12/16. Una cosa è certa: quella vagonata di euro che arrivano da Cvc occorre spenderli a modo e quando li darai ai club dovrai fare loro un bel discorsino.

Ci vediamo fra quattro anni.


Italia forza 28

7 febbraio 2021

Sulla ruota di Roma è uscito il 28. Lo immaginavamo, ahimè. Speravamo, però, non uscisse il 50. Pesantissimo. C’è chi, a fine partita, ha lanciato il solito “cosa ci stiamo a fare lì nel 6 Nazioni” (anche gli irriducibili cominciano a vacillare) e chi vorrebbe la testa di Franco Smith, reo di distruggere il movimento. Ma avete presente i nostri passaggi (non mi riferisco soltanto a ieri, eh)? E l’uso del piede? Avete presente quante volte rompiamo i placcaggi? E con che abbrivio arriviamo a contatto coi trequarti? Avete presente come placchiamo? Avete presente quante occasioni da meta non siamo riusciti a sfruttare con l’Under 20 in tutti questi anni? In parte, è un film che vedo già con le Zebre. Ma se la Nazionale è espressione, al 90%, di Zebre e Benetton, con le loro classifiche, cosa pensiamo di fare nel 6 Nazioni? Forse sarebbero altri quelli da palare a casa (insieme o non a Smith). Nel 2008 intervistai Giancarlo Dondi poco prima delle elezioni che l’avrebbero visto riconfermato per il suo ultimo mandato. Gli posi alcune questioni tecniche, di metodo, generali e che coinvolgevano, indirettamente, anche la nazionale. Mi rispose che, in sostanza, qualche testa avrebbe dovuto cadere. Settimane dopo uscì l’organigramma: tutto era rimasto come prima. Chi c’è, ancora, là dentro? E Smith sarebbe il distruttore del nostro movimento? Vi ricordate come giocava l’Italia con Costes poco prima di entrare nel 6 Nazioni? Poi è arrivato Johnstone e ha provato a snaturarci, un po’ anche Kirwan. Poi con Berbizier abbiamo visto forse la miglior Italia in 21 anni di 6 Nazioni. Per dire … Eravamo entrati nei primi dieci del ranking mondiale. Sì può anche retrocedere di qualche posto, lo fanno tante altre Nazionali che poi risalgono, ma qui sono anni che non si vede come si possa fare anche soltanto a recuperare due posizioni. Un tempo, almeno, avevamo la mischia che metteva in soggezione chiunque (e giocatori diversi, molti nei principali campionati europei). L’unico appunto che mi permetto di fare a Smith è che non capisco per quale motivo insistiamo con questo gioco (certo, prima o poi lo devi pur fare di andare a sbattere, non si scappa) quando non riusciamo quasi mai ad andare oltre o a creare superiorità. La miglior stagione delle Zebre è stata la prima dell’era Bradley. Possesso, molto, sì, ma con gran movimento palla fino alle ali, molto coinvolte, cambi di direzione eccetera: maggior numero di mete nella storia celtica, maggior numero di vittorie tra Pro12, allora, e Coppa, spettacolo in campo. Non che non venissero passivi, fuori casa, da 40 o 50 punti, però … Sabato prossimo uscirà il 29 (col 35, il 45 o il 60?). Poi inizieranno “le nostre partite”. Food Network here we come.